Il Vangelo è la liberazione. Le nostre liberazioni sono tutte parziali. Facciamo festa per la fine della guerra e la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista, ma poi abbiamo vissuto anni non meno grigi. Don Luciano è stato testimone di quegli anni complicati. Divenuto sacerdote il 06 aprile 1935, diventa Rettore del Santuario di Poggio Piccolo nel 1939. Assisterà da questo particolare punto di osservazione – gli occhi di Maria – tutta la scellerata vicenda della guerra, come lo sono tutte le guerre anche quelle che non combattiamo di persona, ma che foraggiamo inviando armi a più non posso, combattendole per interposta persona – come anche tutta la violenta stagione di pace del dopoguerra in cui l’uccisore non poteva nemmeno essere nominato perché italiano come l’assassinato e per giunta dalla parte giusta. Quanti confratelli come don Luciano sono morti uccisi in quegli anni, a liberazione compiuta!
Don Luciano si era fatto prete, in tempi non sospetti, per annunciare agli uomini l’unica vera liberazione: Gesù Cristo, Crocifisso e Risorto, I’unico capace di vincere la guerra, la morte, il peccato, la violenza, l’odio, l’ideologia cieca. “La Buona Novella -diceva don Luciano-consiste nell’annuncio della salvezza in Dio Salvatore” (Diari, Luglio 1977).
Quando si parla di annuncio noi corriamo un rischio. Allora e ancora oggi. Il rischio di pensare che l’organo decisivo della vita cristiana sia la bocca e la parola lo strumento decisivo. In questo senso, tutta l’attenzione data dal Concilio Vaticano II in poi alla Parola di Dio ha generato un equivoco sostanziale: il primato della parola – anche umana – nell’ azione della Chiesa e la riduzione del cristianesimo a messaggio.
Il Cristianesimo non ha nessun messaggio da portare al mondo. Il Cristianesimo – lo diceva bene il Cardinal Biffi – non è una filosofia, non è un sistema di valori e di pensieri, non è neppure una religione. In definitiva, non è qualcosa da capire. Se fosse appena Parola, infatti, sarebbe qualcosa da ascoltare e comprendere. Il Cristianesimo è una persona, la persona divina del Figlio che si è fatto Carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Se il Cristianesimo è una persona, è da accogliere. Non da capire. E da accogliere, come una madre accoglie un figlio. È da incontrare. Don Luciano lo aveva capito quando nel 1977 scrive: “Il Signore mi ha fatto capire che quando si parla di predicazione, è tutta la mia vita, la mia ragione di essere, tutta la direttiva della mia vita ad annunciare la Parola che salva” (Diari,Luglio 1977).
Tutto di don Luciano, tutto di sé, è coinvolto nell’annuncio, come una madre o un padre educano non appena con le parole, ma con i gesti, le scelte, lo sguardo, la fiducia, il coraggio, gli amici, l’uso del denaro, le priorità, l’umiltà dinanzi ai fatti della vita.
La consapevolezza di questo genera stupore e scandalo, gratitudine e senso di inadeguatezza. Chi sono io, in fondo? Perché proprio a me,poi? Don Luciano doveva avvertire questo dramma quando sottolinea nei suoi scritti:
“L’aver il Signore nella sua Provvidenza voluto servirsi di creature, di uomini per questo annuncio di Salvezza, mi fa comprendere le mie responsabilità nel donarmi a questo compito e sentire l’impegno gravissimo che ho nelle mani”(Diari, Luglio 1977).
Il mistero di un sacerdote non è nella sua capacità di predicazione. Don Luciano non brillava per questo. In questo assomigliava a don Giovanni Fornasini che sarebbe divenuto sacerdote poco dopo, nel 1941 e martirizzato a Monte Sole nel 1943. Non era così anche il Curato d’Ars, non era così nemmeno Padre Pio.
II mistero di un sacerdote è tutto nelle mani, ossia nella sua capacità – non una dote umana, ma una Grazia soprannaturale frutto del Sacramento dell’Ordine – nella sua capacità di rendere, per la potenza dello Spirito, del comune pane nel Corpo sofferente e glorioso di Cristo e del vino d’uva in preziosissimo sangue del Redentore. Il mistero di un sacerdote è nel sorprendersi investito da qualcosa di più grande di sé. Don Luciano attraverso gli occhi di Maria aveva incontrato Cristo e sempre lo incontrava.
Come dice San Pietro:«si rivestitevi tutti di umiltà(…)perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili». Nemmeno l’insuccesso aveva il dominio in lui. Scriveva: “Nell’adempimento della Missione, può venire l’ora dello sconforto e dell’avvilimento, ci può essere l’ora oscura, in cui può sembrare che tutto quello che si è fatto, venga annullato – l’ora del fallimento, tanto più dolorosa in quanto qualche volta accompagnata da oscurità interiori e da prove interne e personali e intime. La grande tentazione sarebbe di chiudersi in se stesso, in una solitudine grande. (…) L’unico conforto è il comportamento e la presenza di Cristo. Anche Lui ha provato l’abbandono, delle folle, dei beneficati, e dei suoi intimi, anche Lui ha sentito paura e angoscia e solitudine. Come ha reagito: l’abbandono al Padre. La sua Missione l’ha compiuta fino alla croce. La sua Missione ora, è la nostra salvezza. Egli non ha cessato mai di amare e di donarsi, con un amore che superava ogni considerazione personale. Possa anch’io, se quell’ora verrà, continuare nell’umiltà e nella preghiera, nell’abbandono nelle mani del Padre ad amare, a dare” (Diari, Luglio 1977).